IL GRANDE DITTATORE

di Francesco Bianco

Chi oserebbe discutere i meriti del Berlusconi presidente del Milan? Nessun critico serio, immagino. Negli ormai lontani anni 80, quando il Cavaliere raccolse l'eredità di , trasformò i rossoneri da deludente squadra di media classifica nel più prestigioso (a livello internazionale, quanto meno) club del mondo, portando a Milanello, nel corso degli anni, i più forti allenatori (Sacchi, Capello) e giocatori del mondo (Da Van Basten a Kakà), vincendo 5 campionati, 4 Coppe dei Campioni e svariati altri trofei a livello nazionale e internazionale (l'ultimo "buco" nella bacheca berlusconiana è stato colmato con la vittoria della scorsa Coppa Italia). Non solo: oltre alle scelte strategiche, oltre ad aver allestito una struttura societaria affidabile e vincente ed aver raccolto attorno a sé uno staff di prim'ordine in grado di gestire al meglio società e squadra (quel che non riesce, evidentemente, a Moratti), Berlusconi si è dimostrato (soprattutto nei primi anni di carica, quando non era distolto dalla passione rossonera dagli impegni politici) un fine intenditore di calcio in prima persona, vicino alla squadra e prodigo di iniziative in prima persona (anche in campagna aqcuisti) che non hanno mancato, dati alla mano, di produrre gli effetti desiderati.
Non abbiamo perciò motivo, ora, di scandalizzarci per le dissertazioni tecnico tattiche del suo attuale Milan, che segue come nessun altro da una vita e che vorrebbe sempre veder giocare all'attacco, almeno con due punte (numero per altro ragionevolissimo per la maggior parte degli allenatori). Berlusconi ha il diritto e il dovere (come tifoso e come presidente) di avere delle preferenze, e le sue considerazioni, pur passibili di critiche, non debbono scandalizzare.
Ci sono tuttavia almeno tre ragioni per insorgere contro le esternazioni del Cavaliere:

  1. Ciò che egli critica non è la redditività del modulo ancelottiano, che sta portando il Milan a dominare un campionato e ad essere competitivo anche in Champions League (già vinta l'anno scorso), quanto la spettacolarità del gioco espresso. Quest'ultima, a ogni presidente dotato del giusto senno e del rispetto verso i propri tifosi, dovrebbe apparire come strettamente funzionale ai risultati. Se così fosse, Berlusconi non avrebbe assolutamente il diritto di criticare Ancelotti. Il quale, giocando di rimessa a una punta, ha meritato una fondamentale vittoria contro la Roma di Capello (immaginiamo che i tifosi presenti all'Olimpico non abbiano badato, lamentandosene, all'assenza di Borriello). Il punto è un altro. Al proprio Milan Berlusconi chiede di dare un'immagine, di comunicare un vero e proprio messaggio culturale. Non la vittoria, ma la stravittoria, che vale sempre tre punti ma che da l'idea dell'invincibilità, della spavalderia, dell'arroganza nella sua stessa essenza. Un Milan a immagine e somiglianza, non ché a supporto del proprio patron. In linea con tutto questo, naturalmente, sta l'umiliante ramanzina inflitta a Carlo Ancelotti. E vengo al punto due.
  2. Non a caso la polemica, piuttosto che rimanere circoscritta nell'ovattata sede di Milanello, si è prodotta davanti ai microfoni e le telecamere delle principali trasmissioni sportive nazionali. Affinché il messaggio assumesse le giuste (s)poroporzioni, occorreva che il tecnico non solo si adeguasse alle imposizioni del proprio padrone (sulle quali, tra l'altro, avrebbe potuto anche essere sinceramente d'accordo), ma anche e soprattutto che ciò fosse mostrato, amplificato e spettacolarizzato di fronte all'Italia intera. Ancelotti doveva subire una vera e propria umiliazione pubblica, funzionale all'autocelebrazione del presidente. Tutto questo, ovviamente, è grave e scorretto. Non dubitiamo che altri presidenti, in maniera più o meno insistente, esercitino pressioni ed esprimano preferenze circa il gioco della squadra e i calciatori da impiegare, ma non ricordiamo casi così eclatanti di pubblicizzazione ed enfasi della cosa.
  3. Quand'anche la questione si fosse esaurita a Milanello, Berlusconi avrebbe comunque un torto. L'allenatore viene scelto dal presidente per svolgere il suo ruolo in autonomia, salvo rendere conto al presidente stesso e ai dirigenti dei risultati della squadra. Il momento di inevitabile interazione e intersezione delle competenze, semmai, deve avvenire durante la campagna acquisti. Ma al momento di scegliere formazioni e moduli tattici (o sarebbe) il tecnico a dover avere l'ultima, insindacabile, facoltà di scelta, e questa facoltà non dovrebbe essere influenzata da (velate) minacce o dal peso di dichiarazioni come quelle che il Cavaliere ha rilasciato nei giorni scorsi. Ben venga il presidente che discute di calcio con il proprio tecnico, dispensando anche consigli da "appassionato"; a condizione, tuttavia, che la scelta finale del tecnico sia poi libera di ignorare tali consigli (che dovrebbero essere equiparati a quelli di qualunque altro tifoso, magari tra i più competenti). Creare il giusto equilibrio e il giusto clima di serenità e libertà attorno a chi guida la squadra, naturalmente, è compito del presidente. Berlusconi, ci pare di poter dire, ha fallito (o ha voluto fallire).

Quel che dice Ancelotti ha poca importanza. Innanzi tutto perché, come già detto, la polemica ha un significato e un valore più mediatici che effettivamente tecnico-tattici (il modulo a due punte è vecchio come l'acqua calda ed appare anzi il più scontato; senza contare che, avendo tutti i calciatori a disposizione, è anche il più usato dallo stesso Ancelotti). Secondo, perché non ci sarebbero ragioni per pensare che un tecnico relativamente giovane, alla guida (ben pagata) dei campioni d'Europa (e dei probabili prossimi campioni d'Italia), possa alzare la testa contro il proprio datore di lavoro rischiando di compromettere tutto. Carletto Ancelotti ha il vento in poppa, su una rotta che sembrerebbe portarlo verso obiettivi importanti e verso una vittoriosa carriera. Potrebbe mai guastare tutto per una questione più di principio che di fatto?
Potrebbe, in realtà. Il dovere morale nei confronti di se stesso e della propria dignità, sarebbe anzi proprio quello di insorgere e di lasciare la guida della squadra proprio ora. Oppure a fine stagione, magari dopo un altro importante successo. Ma non crediamo che lo farà. Sarebbe un sogno. Sarebbe un sogno vedere affossare i sogni di gloria del grande dittatore, così come sarebbe un sogno ascoltare ragionevolezza nelle parole del suo leccapiedi Paolo Liguori (che a proposito di Ancelotti parla del dovere di adeguamento alla "linea editoriale" della società; ma quale altra linea editoriale può avere una società rispettabile, se non quella della vittoria e, al limite, della correttezza?).