L'AMICO MARCO

di Livio D'Alessandro

Il più grande ed entusiasmante ciclista italiano del dopo Coppi è morto in un contesto di circostanze fra i più tristi che si possano immaginare. Ha scelto la città simbolo dell’estate per morirci d’inverno. Il giorno simbolo dell’amore e della compagnia per morire da solo. Un residence a due passi da casa pur essendo questa tutta vuota e completamente a sua disposizione. Non accettava la sua condizione di campione offuscato dal sospetto del doping. Chi però non lo riteneva colpevole ora si trova a non accettare la sua morte. E siamo in centinaia di migliaia.

Marco Pantani ha accompagnato in modo troppo determinante le vite degli amanti del ciclismo negli ultimi dieci anni e ha avvicinato al ciclismo troppe persone perché ora si possa pensare che il vuoto lasciato sia colmabile da un contenuto diverso dalla depressione, dalla lacerante malinconia del ricordo, dall’impotenza.

Come per ogni campione leggendario credo non sia possibile, per quanto ci si adoperi all’uso di ornamenti stilisticamente elevati, rendere in un articolo la magnificenza delle sue imprese, la grandezza delle sue vittorie. È come togliergli quel velo di poesia. Chi ne ha seguito la carriera passo passo non riterrà mai sufficienti le emozioni del brano. L’articolo è per gli eventi singoli. Preferisco dunque non parlare delle prodezze del Pirata.

Mi chiedo soltanto se sia stato un carattere già predisposto ad esplodere – o meglio implodere – dinnanzi ad un evento negativo come la sottrazione di un Giro o se sia stato l’evento negativo a partorire quella fragilità estrema del carattere che lo ha portato alla distruzione dell’animo e del fisico. Marco avrebbe potuto fermarsi quindici giorni dopo quel 5 giugno 99. In quei quindici giorni avrebbe potuto continuare ad allenarsi, reagire, volare al Tour e andarlo a stravincere. Ma il fatto di essere stato fermato proprio nel giorno più alto della sua carriera e della sua gloria lo ha distrutto, gli ha fatto fiutare un tradimento. Che con il tempo sarebbe diventato accanimento. Ha sempre negato le colpe che gli venivano imputate, dai tanti processi è stato assolto, la sua colpevolezza o innocenza sportiva resterà dunque sempre un mistero.

Certa è una cosa: se a tutti i ciclisti venisse riservato da parte della giustizia sportiva e ordinaria il trattamento – giusto o sbagliato che sia, ognuno dia il proprio giudizio di merito - riservato a Marco Pantani, avremmo uno sport in meno.

E un’altra cosa è certa: senza Pirata gli sportivi italiani e non solo avrebbero avuto un ultimo decennio di ventesimo secolo molto ma molto più noioso.

E strugge quindi il dolore ed è pronto il grido straziato al pensiero di prendere piano piano coscienza che non c’è più: lui, gioia di mille momenti, lui, ben più di un semplice sportivo; un grande amico, piuttosto.