POI FISCHIANO PANUCCI

di Livio D'Alessandro

È di grande attualità la guerra in Iraq e ogni televisione ci propina quotidianamente la razione di immagini di una Bagdad devastata. Un triste scenario.
Quanta amarezza dunque, questa sera, nel rivivere Bagdad a Roma.
Il Foro Italico squassato da razzi e sassaiole, lacrimogeni e scontri. Scontri tra uomini. Uomini che non avrebbero motivi, di per sé comunque quasi sempre ingiustificabili,  per entrare in conflitto. Non motivi di etnia, non di territorio, non di interessi finanziari. Proprio questa assenza di motivi lascia basiti, quasi incapaci di reagire. Perché ogni grande battaglia sociale e politica nasce dalla consapevolezza di una convinzione, dalla spinta di un ideale, dalla presenza di un obiettivo prefissato, uno scopo spesso nefasto ma comunque uno scopo. Nel teppismo da stadio invece non riscontro nessuna di queste caratteristiche. Solo il vile sfruttamento di un fenomeno di risonanza nazionale come il calcio per tentare di autoconvincersi che le uniche azioni che si è in grado di compiere nella vita, picchiare e insultare, riescano bene. È il tentativo estremo e dunque attuato per mezzi estremi di trovare un significato all'esistenza che altrimenti sfugge di mano con i suoi dirompenti vuoti.
Tutto ha origine nel disagio sociale e nella travolgente, drammatica ignoranza.
Ma il derby del 21 marzo non verrà ricordato solo per gli incendi, le cariche della polizia, le sirene delle autoambulanze. Altri eventi molto più drammatici hanno fatto in passato da cornice alle partite di calcio, da Paparelli a Ercolano passando per Spagnolo e De Marchi, per citarne solo alcuni. Ciò che impressiona soprattutto dei fatti di questa sera è, per quanto mi riguarda, la presa di coscienza che alcune frange di tifo abbiano ormai il potere e i mezzi per condizionare il comportamento della propria squadra e dunque del campionato intero. Se è vero come sembra mentre scrivo che la voce della morte del bambino sia stata lanciata in maniera del tutto proditoria e addirittura organizzata da una parte della Curva Sud con lo scopo di non far giocare la partita, vuol dire che questo sport è arrivato al capolinea. Del resto la voce di Totti che si rivolge a Capello dicendogli che "se giochiamo questi ci ammazzano" riferendosi ai tifosi, è stata di dominio pubblico (grazie ai microfoni di sky). A Roma in questo senso la situazione è forse molto più accesa rispetto ad altre parti d'Italia. L'etere romano e le televisioni locali formano una grande rete, e godono di una notevolissima autorevolezza presso i tifosi. Le trasmissioni su Roma e Lazio vanno avanti senza sosta dal lunedì alla domenica contraddistinte da guerre intestine, insulti reciproci, matrimoni e tradimenti professionali, faziosità senza fine, talvolta patetiche. Tutto ciò tende a surriscaldare ancora di più il tifoso romano medio già per natura patito di calcio quando non da esso dipendente. I gruppi di tifosi considerano ormai doverosi spazi che in realtà non gli spettano, interventi nelle decisioni (ad esempio societarie) che non sono chiamati a prendere. A ciò si aggiunga l'ingrediente determinante del disagio sociale e dell'ignoranza ed ecco che il clima si infervora e che si arriva all'apice negativo di questo percorso: il 21 marzo 2004.
Ma può darsi che tra due giorni viene fuori che è davvero morto un bambino schiacciato da una sprovveduta macchina della polizia. In quel caso le mie ipotesi si rivelerebbero ovviamente sbagliate e mi sentirei di rivolgere un grazie a coloro che hanno insistito affinché la partita non si giocasse.